La ricerca scientifica in Italia: cosa possiamo imparare dalla sua lunga storia

 

1. La comunità scientifica italiana Si può parlare di cultura italiana a partire dal XIII secolo, all’apparire delle prime opere letterarie in volgare. Il processo di formazione di una comunità scientifica nazionale è più lento, perché per alcuni secoli la lingua della scienza continuò a essere il latino, ma ha inizio alla stessa epoca. Risalgono infatti al XIII secolo i primi manuali d’abaco scritti in volgare. Nei trattati scientifici l’uso del volgare si afferma più tardi, ma non è una novità introdotta da Galileo, come a volte si è portati a credere. Ad esempio Tartaglia, nel primo Cinquecento, scrive in italiano e a lui risale anche la prima traduzione in italiano degli Elementi di Euclide. Naturalmente ben prima di allora anche gli scienziati che nelle loro opere preferivano usare il latino usavano l’italiano per parlare e corrispondere tra loro e l’uso di una lingua comune, favorendo gli scambi culturali e la mobilità all’interno della penisola, dette vita ad una comunità scientifica nazionale. Poiché oggi vi è spesso la tendenza a privilegiare, anche in campo scientifico, le tradizioni locali, vale la pena illustrare quale fosse nel Seicento la mobilità degli scienziati italiani tra i vari Stati ricordando le sedi di formazione e di lavoro dei massimi scienziati dell’epoca. il bresciano Benedetto Castelli studiò a Padova e insegnò a Pisa e a Roma; il piemontese Bonaventura Cavalieri fu allievo di Castelli a Pisa e divenne professore a Bologna; il faentino Evangelista Torricelli studiò a Roma e divenne matematico del granduca di Toscana; il napoletano Giovanni Alfonso Borelli studiò a Pisa e insegnò a Messina e a Pisa prima di trasferirsi a Roma; anche il bolognese Malpighi, oltre che a Pisa e a Bologna, insegnò a Messina prima di terminare la carriera a Roma.1 1 Questi esempi, come gran parte del materiale di questo intervento, sono tratti da L. Russo e E. Santoni, Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia, Feltrinelli, 2010. Oggi la mobilità degli scienziati tra le diverse sedi universitarie è certamente minore. La consapevolezza degli scienziati italiani di appartenere a una comunità scientifica nazionale crebbe nel tempo, finendo col fornire un contributo importante e probabilmente essenziale al Risorgimento. Un episodio significativo fu la creazione, nel 1781, della Società italiana delle scienze, che dal numero dei suoi membri fu presto detta Accademia dei XL. La Società, nata per iniziativa dello scienziato e ingegnere veneto Anton Maria Lorgna, aveva lo scopo di supplire all’assenza di una politica scientifica nazionale, resa impossibile dalla frammentazione politica, grazie a un coordinamento degli scienziati attuato su base volontaria e motivato dal patriottismo. Ad essa aderirono i maggiori scienziati del Paese, da Volta a Spallanzani, da Arduino a Boscovich. Un’altra iniziativa importante, con la quale di fatto, anche se non esplicitamente, la comunità scientifica nazionale, assunse il ruolo di promotrice del Risorgimento politico, fu costituita dalle ben note Riunioni degli scienziati italiani, che si tennero annualmente dal 1839 al 1847 in vari Stati della penisola. Il contributo degli scienziati al Risorgimento è in genere sottovalutato, se non ignorato, non solo dal grande pubblico, ma anche nei libri di storia. In realtà la partecipazione di quasi tutti i maggiori scienziati italiani ai moti risorgimentali2 2 Ricordiamo, per fare qualche esempio, che Luigi Cremona, il fondatore della scuola italiana di geometria algebrica, nel 1848 partecipò diciassettenne alla difesa di Venezia; Francesco Brioschi, il matematico che avrebbe fondato il Politecnico di Milano, partecipò alle cinque giornate di Milano; Stanislao Cannizzaro partecipò ai moti del ’48 a Palermo; il fisico matematico Ottaviano Fabrizio Mossotti comandò il battaglione universitario alla battaglia di Curtatone e Montanara. Gli esempi potrebbero continuare a lungo. e il riconoscimento del ruolo essenziale degli scienziati da parte della classe dirigente dell’epoca3 3 Dopo l’Unità quasi tutti i maggiori scienziati divennero senatori: carica che all’epoca era a vita e conferita per nomina regia. non possono essere considerati dati casuali, attinenti solo alla biografia dei singoli personaggi. Essi nascevano dalla consapevolezza che, da un lato, il progresso economico e civile dell’Italia non poteva prescindere dal rilancio della ricerca scientifica e dall’altro che tale rilancio poteva essere solo l’opera di uno Stato nazionale unificato. 2. Alcune caratteristiche culturali della comunità scientifica italiana La comunità scientifica italiana ha avuto proprie caratteristiche culturali distintive. Uno dei tratti caratteristici probabilmente più appariscenti è stato il profondo legame con la cultura classica. Mentre nel Medio Evo in tutta Europa l’unico modo per occuparsi di scienza era stato quello di studiare le fonti greche, ma per lo più attraverso intermediari arabi o latini, nel Rinascimento italiano il rapporto con la scienza classica divenne diretto e consapevole. Credo che una delle principali ragioni di questa particolarità italiana sia consistita nell’immigrazione nel nostro Paese di una schiera di intellettuali bizantini, soprattutto nell’imminenza della conquista turca di Costantinopoli del 1453. Il ruolo dell’emigrazione bizantina nel sorgere del Rinascimento è stato variamente giudicato, ma probabilmente è stato in genere sottovalutato, proprio perché l’attività principale degli intellettuali bizantini giunti in Italia fu la traduzione di opere scientifiche greche: un lavoro fondamentale per la nascita della scienza moderna, ma non troppo apprezzato dagli studiosi del Rinascimento, la cui formazione è in genere esclusivamente umanistica4 4 Questo punto è ben esemplificato dalla seguente affermazione dell’importante studioso John Monfasani: It is true that the émigrés were prodigious translators. But if we examine what they translated, we find that they translated almost exclusively scientific works [...] as translators the émigré Greeks were marginalized into a narrow specialty, [...] (John Monfasani, Greeks and Latins in Renaissance Italy, Ashgate, Aldershot-Burlington 2004, p. 12). . Naturalmente dobbiamo a loro anche l’origine della tradizione italiana di studio del greco, che vive ancora attraverso la presenza in Italia dell’unica scuola secondaria con lo studio obbligatorio della lingua e letteratura greca: il nostro liceo classico. Per valutare correttamente l’importanza dello studio delle fonti greche nella Rinascita scientifica europea è essenziale non sottovalutare il ruolo svolto in tale Rinascita dagli esponenti del Rinascimento italiano (ricordiamo che si devono a loro, tra l’altro, la nascita dell’algebra moderna e della moderna scienza della botanica, la rinascita dell’anatomia e l’inizio degli studi sul moto dei gravi e sui fenomeni aleatori5 5 Le origini del Calcolo delle probabilità possono essere fatte risalire al trattato cinquecentesco De ludo aleae, di Girolamo Cardano. ; soprattutto si deve a loro il primo incontro tra le conoscenze scientifiche trasmesse dai classici e i saperi propri delle botteghe artigianali ed artistiche, un incontro che è ben esemplificato dall’applicazione della geometria e dell’ottica alla teoria della prospettiva utile ai pittori6 6 La prospettiva rinascimentale risale probabilmente a Filippo Brunelleschi, che tuttavia non scrisse nulla sull’argomento; la teoria della prospettiva fu esposta per la prima volta in forma semiempirica da Leon Battista Alberti e compiutamente dal grande matematico e pittore Piero della Francesca. ). Il rapporto con la cultura classica continuò a caratterizzare la tradizione scientifica italiana ben oltre il periodo rinascimentale. In particolare quando, alla fine del Seicento, nei principali centri di ricerca europei i metodi numerici presero il sopravvento sulla tradizione matematica classica basata su metodi geometrici, in Italia vi fu una forte resistenza a seguire il nuovo corso (sulle ragioni della quale ritorneremo) e quando la matematica italiana, a cavallo tra XIX e XX secolo, raggiunse di nuovo livelli competitivi, fu ancora il settore della geometria, nella nuova forma della geometria algebrica, il suo massimo punto di forza e non è certo un caso se tra i massimi esponenti della nuova disciplina vi fu lo stesso Federigo Enriques che coordinò e diresse un’edizione di Euclide e si occupò di scienza antica. Un’altra caratteristica della tradizione scientifica italiana affonda le sue radici nel Medio Evo e più precisamente nella struttura degli studi nelle prime università italiane: quelle di Bologna (fondata intorno al 1190) e di Padova (nata nel 1222 dalla scissione di una parte degli studenti bolognesi). Nelle università medievali le discipline scientifiche, o meglio le poche conoscenze che formavano il germe dal quale le discipline scientifiche si sarebbero sviluppate, erano trasmesse e sviluppate principalmente nella cosiddetta Facoltà delle arti, nella quale si insegnavano le sette arti liberali: il quadrivio, formato da aritmetica, geometria, astronomia e musica, e il trivio, costituito da grammatica, retorica e dialettica; nell’ambito della dialettica si insegnavano la logica e anche un po’ di filosofia naturale. L’insegnamento poteva poi estendersi ad argomenti come l’ottica e la meccanica. La facoltà delle arti era una facoltà minore, in quanto vi insegnavano i professori meno pagati e i suoi studenti la frequentavano per lo più come studio propedeutico, prima di iscriversi ad una delle tre facoltà maggiori: giurisprudenza, medicina e teologia. Spesso come docenti della facoltà delle arti erano assunti studenti di una facoltà maggiore. Nelle principali università degli altri paesi europei, come a Oxford e Parigi, la facoltà delle arti era strettamente connessa a quella di teologia. Argomenti come l’astronomia, l’ottica e la meccanica erano così insegnati per lo più da teologi o studenti di teologia. Questa circostanza, spesso dimenticata, ha certamente influenzato gli sviluppi che queste discipline ebbero a Parigi e a Oxford, a opera di teologi o ex-teologi come Roberto Grossatesta, Ruggero Bacone e Giovanni Buridano. Nelle università di Bologna e Padova mancò invece a lungo la facoltà di teologia e la facoltà delle arti fu unita con quella di medicina7 7 A Bologna e Padova vi era un’unica facoltà detta universitas artistarum et medicorum. ; anche quando, nella seconda metà del Trecento, furono istituiti studi teologici, non venne meno il rapporto privilegiato tra “arti” e medicina. In Italia l’astronomia e le discipline che sarebbero confluite nella fisica furono così sviluppate non da teologi, ma soprattutto da medici. Il particolare contributo dei medici allo sviluppo scientifico rimase a lungo una caratteristica italiana, anche se nei secoli cambiarono i settori di interesse: dal XIII al XVI secolo furono medici molti dei principali astronomi italiani, da Campano da Novara e Jacopo Dondi a Federico Crisogono e Girolamo Fracastoro. Il contributo dei medici alla matematica durò ancora più a lungo, da Girolamo Cardano, nel XVI secolo, fino a Paolo Ruffini, a cavallo tra Settecento e Ottocento. Furono naturalmente medici gli iniziatori delle ricerche chimiche (ma questa era una circostanza diffusa anche nel resto dell’Europa), come furono medici gli iniziatori degli studi sull’elettricità, da Eusebio Sguario a Luigi Galvani. È probabile che, anche quando le scienze esatte si resero autonome dal loro rapporto con la teologia o con la medicina, quel marchio d’origine continuasse a influenzare la tradizione scientifica italiana in modo diverso da quelle francese e inglese, spingendo gli studiosi italiani a una grande attenzione per il singolo fatto empirico e a una certa diffidenza verso teorie generali e tendenzialmente onnicomprensive. Non credo cioè sia un caso che il capolavoro scientifico di Galileo (che tra l’altro aveva iniziato i suoi studi universitari nella facoltà di medicina) si intitoli Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (riferendosi a quella del moto dei gravi e a quella della resistenza dei corpi ad essere spezzati) e che egli non abbia mai pensato di scrivere un trattato sui Principi matematici della filosofia della natura, come fece invece Newton (i cui interessi teologici sono peraltro ben noti). Anche il gusto francese per teorie matematiche astratte e generalissime, ancora vivo, mantiene probabilmente un rapporto con l’antica tradizione. Per fare un altro esempio, non è forse un caso se i contributi italiani all’elettromagnetismo sono stati importanti, ma hanno riguardato soprattutto lo studio di particolari fenomeni e l’invenzione di particolari apparecchi (dagli studi del medico Galvani sulle rane alla pila di Volta, dalla dinamo di Pacinotti al motore elettrico asincrono di Galileo Ferraris fino al “coesore” di Calzecchi Onesti) e non sintesi concettuali universali, come quella contenuta nel Treatise on Electricity and Magnetism di Maxwell. 3. Perché il peso relativo del contributo italiano alla scienza crollò alla fine del Seicento? Nei secoli XIII e XIV, nei quali l’opera degli studiosi consisteva essenzialmente nel reperimento, traduzione e studio di opere scientifiche greche e arabe, il contributo italiano allo sviluppo scientifico europeo fu confrontabile con quello di vari altri paesi. In Italia furono particolarmente importanti i progressi in anatomia (ricordiamo la ripresa delle dissezioni anatomiche a Bologna, intorno al 1310, grazie a Mondino de’ Liuzzi) e in astronomia (studiosi come Campano di Novara furono essenziali nell’opera di recupero del sistema tolemaico) e le scuole d’abaco, originate dall’opera di Leonardo Fibonacci, diffusero una conoscenza elementare dell’algebra che renderà possibile gli sviluppi successivi. In paesi come la Francia e l’Inghilterra furono invece più importanti gli studi di logica, meccanica e ottica. L’Italia acquistò un ruolo centrale nel XV secolo e lo mantenne almeno fino alla prima metà del XVII. Senza descrivere i successi degli scienziati italiani di questi secoli (dal recupero della matematica classica alla nascita dell’algebra moderna, dagli studi di Galileo sul moto dei gravi alla fondazione dell’idrodinamica da parte di Castelli, dai risultati astronomici di Borelli e Cassini alla fondazione del metodo sperimentale in biologia ad opera di studiosi come Redi e Malpighi), cerchiamo di determinare l’epoca e le ragioni del rapido tracollo, che trasformò il nostro paese dal principale centro della ricerca scientifica europea a una zona del tutto periferica. Nell’immaginario collettivo il declino della scienza italiana è spesso collegato al processo a Galileo e imputato all’azione della chiesa cattolica. Anche se il processo a Galileo ebbe indubbiamente una grave azione frenante sulla diffusione del copernicanesimo in Italia e, più in generale, sulle ricerche astronomiche svolte nella penisola, vi sono, a mio parere, almeno due ragioni per non attribuirgli un ruolo così catastrofico e generale. La prima ragione è di natura cronologica. Il processo, conclusosi con la condanna di Galileo, ebbe luogo nel 1633, mentre è abbastanza chiaro che la ricerca scientifica italiana aveva un ruolo centrale ancora negli anni ’60, un trentennio e più dopo il processo. A questi anni risalgono infatti lavori di importanza fondamentale come, nel campo delle scienze della vita, le De pulmonibus observationes anatomicae di Malpighi, del 1661, e le Esperienze intorno alla generazione degl’insetti di Redi, del 1668. Nel campo della fisica si possono ricordare gli esperimenti condotti in quegli anni dall’Accademia del Cimento e la pubblicazione, nel 1665, dell’opera di Francesco Maria Grimaldi in cui si esponeva la scoperta della diffrazione della luce. Nell’ambito delle scienze della terra è generalmente considerato fondamentale il Prodromo di Stenone, in cui si fonda la stratigrafia: un’opera che può essere considerata anch’essa espressione della ricerca svolta in Italia, in quanto l’autore, danese, si era integrato da tempo nella comunità scientifica toscana e si era basato su osservazioni fatte in quella regione. Per quanto riguarda in particolare l’astronomia, i contributi più importanti vennero in Italia da Giovanni Domenico Cassini (scopritore di quattro satelliti di Saturno, della divisione detta appunto di Cassini negli anelli di quel pianeta, della grande macchia rossa di Giove e compilatore, tra le altre cose, delle effemeridi dei satelliti di Giove che permisero a Römer di misurare per primo la velocità della luce) e da Giovanni Alfonso Borelli, che nella sua opera sul moto dei satelliti di Giove (Theoricae Mediceorum Planetarum ex causis physicis deductae) anticipò parte della teoria newtoniana, sostenendo che nel moto dei satelliti, come in quello dei pianeti intorno al Sole, vi fosse equilibrio tra forza gravitazionale e forza centrifuga. Va notato che sia Cassini sia Borelli (che Newton riconobbe tra i suoi pochi precursori) erano copernicani e Cassini insegnava all’Università di Bologna, cioè nello Stato pontificio. Evidentemente il processo a Galileo non aveva potuto bloccare troppo a lungo la diffusione del copernicanesimo in Italia. Il rapido sorpasso della ricerca italiana da parte di quella di Stati come la Francia, l’Inghilterra e l’Olanda può essere datato abbastanza precisamente intorno al 1670. Ricordiamo alcune date. Nel 1669 ha fine l’attività dell’Accademia del Cimento e nello stesso anno Marcello Malpighi termina di pubblicare in Italia (le sue opere successive saranno pubblicate dalla Royal Society); nel 1670 il massimo astronomo europeo, Giovanni Domenico Cassini, si trasferisce da Bologna a Parigi, sostenendo di lasciare dietro di sé in Italia il vuoto. Negli anni ’70 nessuna opera scientifica di grande livello è pubblicata in Italia, mentre in Inghilterra si intensifica l’attività della Royal Society, viene fondato l’Osservatorio di Greenwich e sono pubblicati lavori fondamentali di meccanica e di astronomia, tra gli altri di Halley e Hooke; altri lavori, altrettanto fondamentali, di meccanica sono pubblicati in Olanda da Huygens, mentre nello stesso paese Antoni van Leeuwenhoek fonda la microbiologia scoprendo infusori, batteri e spermatozoi. Negli stessi anni in Francia il potente ministro Colbert attua un’aggressiva politica scientifica, potenziando l’azione dell’Académie des sciences, fondata nel 1666, e affiancandole una serie di altre istituzioni scientifiche. La seconda, e principale, ragione per non dare un peso eccessivo a episodi come il processo a Galileo, risiede nell’impossibilità di attribuire un fenomeno storico di lungo periodo, come il declino della scienza italiana, a una singola decisione e nella necessità di esaminarne le radici “strutturali” (se è ancora possibile usare un termine oggi desueto). Per capire le vere ragioni del rapido declino della ricerca scientifica italiana può essere utile esaminare alcuni esempi particolari. Due aneddoti possono esemplificare l’inversione del dislivello tecnologico tra Italia e Gran Bretagna nel settore degli apparecchi ottici. Nel 1666 il famoso astronomo e ottico scozzese James Gregory, non essendo riuscito a far costruire a Londra in modo soddisfacente il telescopio che aveva progettato, pensò di rivolgersi ad artigiani padovani, mentre nel 1713 uno scienziato come Antonio Vallisneri scrisse a un amico perché gli procurasse da un inglese, di passaggio a Venezia, un microscopio con cui poter finalmente osservare gli spermatozoi, che non era ancora riuscito a vedere con gli strumenti disponibili in Italia8 8 L. Russo, E. Santoni, op. cit., p. 225. . Il crollo della competitività della tecnologia scientifica italiana è ovviamente connesso al generale degrado della sua economia, che era iniziato già nella prima metà del Seicento, quando l’Italia, da paese esportatore di manufatti era divenuto un paese agricolo.9 9 Questa brusca trasformazione è stata messa in rilievo da Carlo Maria Cipolla (L. Russo, E. Santoni, op. cit., p. 224). La nascita della moderna analisi infinitesimale è in genere associata ai nomi di Newton e Leibniz. In realtà, come in tanti altri casi, si trattò di un lungo processo, che trasse origine dal recupero dei metodi infinitesimali antichi, trasmessi soprattutto dalle opere di Archimede. Nel recupero della matematica greca il ruolo degli studiosi italiani, da Federico Commandino a Francesco Maurolico, da Bonaventura Cavalieri a Giovanni Alfonso Borelli, fu essenziale. Per quanto riguarda l’analisi infinitesimale, essa nacque modificando i metodi archimedei da tre punti di vista: generalizzandoli, diminuendone il rigore e spostando il centro dell’interesse dai metodi geometrici a quelli numerici. Si trattava di modifiche strettamente correlate tra loro, in quanto, finché non fu creata una teoria rigorosa dei numeri reali (il che avvenne negli anni ’70 dell’Ottocento), le trattazioni basate su metodi numerici non potevano eguagliare il rigore della geometria euclidea. Anche parte del percorso che dai metodi archimedei portò alla moderna analisi fu compiuto in Italia, grazie all’introduzione degli indivisibili di Cavalieri, la loro generalizzazione non rigorosa a opera di Torricelli e lo studio di serie e integrali dovuto a Degli Angeli e soprattutto a Mengoli (al quale si deve in particolare la prima definizione rigorosa di integrale definito). Quando però lo sviluppo dell’analisi accelerò, portando a metodi rapidi ed efficaci, ma molto meno rigorosi di quelli usati da Cavalieri e Mengoli, l’Italia non vi partecipò. Per capirne il motivo occorre innanzitutto chiarire le ragioni della trasformazione. Il prevalere dei metodi numerici fu innescato soprattutto dall’apparire delle tavole dei logaritmi (e successivamente di molte altre tavole numeriche), che resero i calcoli numerici molto più rapidi ed efficienti. Le prime tavole dei logaritmi, dovute a Napier, apparvero nel 1614. Dieci anni più tardi fu pubblicata la Arithmetica logarithmica di Briggs, che forniva i logaritmi decimali di trentamila numeri naturali con ben quattordici cifre significative. Nonostante alcuni matematici italiani, come Cavalieri e Mengoli, avessero mostrato interesse per il nuovo strumento, le tavole dei logaritmi stentarono a diffondersi in Italia. Evidentemente la struttura produttiva del Paese non forniva un mercato di utilizzatori di metodi matematici numerici. È interessante notare, per contrasto, che sappiamo di almeno un caso, quello del costruttore navale John Wells, nel quale i logaritmi erano usati sin dal 1615 da ingegneri impegnati nella produzione.10 10 Larrie D. Ferreiro, Ships and Science, Cambridge, Mass./London, The MIT Press, 2007, p. 43. Anche lo stesso Briggs, d’altra parte, era interessato a problemi molto concreti: era azionista di un’importante compagnia commerciale (la Virginia Company of London), nel 1610 pubblicò le Tables for the Improvement of Navigation e nel 1622 un trattato sul passaggio a Nord-Ovest. Tra i suoi interessi vi erano anche costruzioni navali, attività minerarie e altri argomenti tecnici. Non stupisce che in Italia, dove non vi erano personaggi come Wells e Briggs e mancavano totalmente gli stimoli provenienti da attività economiche che richiedevano di effettuare calcoli in modo efficiente, non solo non si diffusero i logaritmi, ma i matematici preferirono non rinunciare al rigore dei metodi classici, che altrove era stato sacrificato appunto a vantaggio di una maggiore efficienza di calcolo. Il ritardo accumulato dagli studiosi italiani nel settore dell’analisi matematica si mostra quindi un caso particolare di un problema molto più generale. Nel corso del Seicento cambiarono profondamente gli stimoli concreti allo sviluppo scientifico. Mentre nel secolo precedente essi provenivano essenzialmente dai consumi delle élite (ad esempio importanti sviluppi della matematica avevano avuto origine dal problema della prospettiva e da problemi posti dall’architettura; l’astronomia era stata finanziata soprattutto per la sua applicazione alla compilazione di oroscopi personali; la botanica per l’uso terapeutico delle piante, e così via) nel Seicento la scienza si rivelò essenziale per attività di grande interesse per la borghesia e gli Stati nazionali, come la guerra, la navigazione e la pubblica amministrazione.11 11 L. Russo, E. Santoni, op. cit., pp. 210-224. L’Italia, che non possedeva né un forte Stato nazionale in grado di finanziare la ricerca scientifica né una borghesia in ascesa in grado di stimolare, finanziare e utilizzarne i risultati , era stata rapidamente superata da realtà come la Francia, La Gran Bretagna e l’Olanda. 4. Debolezze storiche della ricerca scientifica risorgimentale Gli scienziati risorgimentali fecero molto per risollevare le sorti della ricerca scientifica italiana, anche impegnandosi in azioni politiche e militari per realizzare l’Unità che avrebbe permesso una politica scientifica nazionale analoga a quella dei maggiori Paesi europei. Il rapporto tra la scienza e i problemi concreti posti dalle attività lavorative può agire in due sensi: o applicando risultati scientifici noti o, inversamente, stimolando nuovi sviluppi della scienza con problemi concreti non risolubili con gli strumenti scientifici esistenti. Gli esponenti del Risorgimento italiano avevano solo la prima possibilità, poiché il rinnovamento delle strutture scientifiche e didattiche del Paese avvenne sulla base di un programma intellettuale, abbracciato da studiosi convinti che la scienza avrebbe permesso l’ammodernamento e il progresso economico e civile del Paese, mentre vi fu una ben scarsa partecipazione delle forze economiche. La situazione può essere illustrata con alcuni esempi. È particolarmente chiaro il caso della chimica. Furono il calabrese Raffaele Piria e il siciliano Stanislao Cannizzaro a portare la ricerca chimica italiana a livelli internazionalmente competitivi (e nel caso di Cannizzaro di indubbio valore storico), ma lo fecero lavorando o su problemi concettuali generali o su specifiche ricerche sperimentali suggerite dalle analoghe ricerche svolte in Francia (sia Piria sia Cannizzaro avevano trascorso periodi di studio a Parigi), senza alcun contatto con la realtà produttiva nazionale. Le importanti scuole di chimica che si svilupparono a Palermo e a Roma non dettero alcun contributo all’economia del Paese, mentre quando iniziarono a svilupparsi anche in Italia le industrie chimica e farmaceutica le nuove attività economiche nacquero in Lombardia e in altre zone dell’Italia settentrionale su base empirica e senza nessun rapporto con la ricerca accademica. Anche la matematica italiana, che fu la scienza che riscosse i successi più significativi (soprattutto per la fondazione di scuole che avrebbero raggiunto i massimi livelli internazionali tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento), nacque in larga misura sulla base di importazione di linee di ricerca presenti in Francia e Germania, ma in assenza degli importanti stimoli che in quei paesi la matematica riceveva dalla fisica, che da noi era molto meno sviluppata, anche perché, a sua volta, non era stimolata da problemi industriali (come avveniva soprattutto in Germania, dove gli sviluppi scientifici chimico-fisici avevano una stretta relazione con la seconda rivoluzione industriale). È significativo che anche l’elettrotecnica, che da noi ebbe importanti cultori, anche grazie alla lunga tradizione di studi sull’elettricità, che risaliva all’epoca di Galvani e Volta, produsse sì importanti risultati, soprattutto nei lavori di Galileo Ferraris, ma quasi nessun brevetto. Ferraris, in particolare, non ritenne quasi mai di brevettare le sue scoperte, mostrando forse nobiltà d’animo, ma certamente la distanza che separava i nostri scienziati dalla mentalità imprenditoriale. L’ultimo punto è bene illustrato dall’episodio della nascita della prima centrale elettrica italiana. Nel 1881 all’Esposizione Internazionale di Elettricità di Parigi fu mostrato il sistema di illuminazione di Edison. Tra i visitatori italiani vi erano Galileo Ferraris, docente del Politecnico di Torino e autorità internazionale nel settore, che era stato incaricato dal governo italiano di stendere una relazione ufficiale, e Giuseppe Colombo, docente del Politecnico di Milano che oggi è ricordato soprattutto per la sua attività didattica, divulgativa, imprenditoriale e politica, che lo rese uno dei protagonisti dell’industrializzazione milanese. Le reazioni dei due italiani furono molto diverse. Ferraris si mostrò cauto: pur essendo ammirato della potenza dei generatori, espresse perplessità sulle lampadine e sul sistema di distribuzione. Colombo fu invece entusiasta: fondò rapidamente una società e si recò negli Stati Uniti per trattare con Edison l’acquisto dei macchinari e l’esclusiva per l’Italia del suo sistema. La prima centrale elettrica dell’Europa continentale nacque così a Milano, in via Santa Radegonda, nel 1883, ma con macchinari importati dagli Stati Uniti e montati sotto la direzione di tecnici americani, senza che il massimo scienziato italiano del settore svolgesse alcun ruolo nell’impresa. Colombo divenne invece subito amministratore delegato e poi presidente della Edison italiana. Svolse cioè una funzione essenziale, ma non come scienziato, bensì come imprenditore e importatore di tecnologia. I nostri politecnici in questa occasione, più che svolgere un ruolo di raccordo tra ricerca e industria, si limitarono quindi a prestare un uomo alla classe imprenditoriale. L’assenza di efficienti canali di comunicazione tra ricerca accademica e mondo imprenditoriale costituì un grave limite della ricerca scientifica applicata italiana, che non caratterizzò solo il periodo risorgimentale, ma non fu sostanzialmente superato successivamente, neppure nei brevi periodi (come nel secondo dopoguerra) in cui si ottennero importanti risultati parziali. Non solo l’assenza di stimoli provenienti da problemi concreti ha privato il più delle volte la ricerca scientifica italiana di uno dei suoi principali motori concettuali; ancora più grave è stato l’istaurarsi di diffidenza reciproca tra mondo accademico e realtà produttive che, impedendo l’innescarsi di cicli virtuosi tra investimenti, ricerca, risultati e applicazioni, ha ridotto a proporzioni trascurabili nel nostro Paese gli investimenti privati nella ricerca applicata e alla lunga economicamente improduttivi quelli pubblici.