Dove sta andando la scuola?

Si può cambiare la direzione della trasformazione?

 

Questo mio intervento riguarda in primo luogo la scuola secondaria italiana, anche se alcune delle considerazioni seguenti possono facilmente estendersi agli altri ordini di scuola e a tutti i paesi dell’occidente. Molti, e certamente tutti coloro che hanno contribuito a questo libro, sono convinti che sia in atto un processo di degrado della scuola e vorrebbero arrestarlo. Mi sembra che ogni tentativo di invertire la tendenza richieda preliminarmente l’individuazione della natura e delle ragioni del processo in atto. Cercherò soprattutto di esporre sinteticamente alcune idee su questi punti, riservando solo qualche accenno a possibili prospettive alternative.

                                                                             

                                                                 

La scuola tradizionale               

 

Dall’unità d’Italia agli anni Sessanta del secolo scorso la scuola secondaria italiana, al di là delle trasformazioni intervenute, aveva mantenuto costanti alcune caratteristiche essenziali. Innanzitutto era separata in due canali nettamente distinti: da una parte vi erano gli istituti tecnici e quelli destinati alla preparazione dei maestri elementari (la scuola normale prima della riforma Gentile e poi l’istituto magistrale) e dall’altra il liceo. Il primo canale, esplicitamente considerato inferiore, preparava direttamente al lavoro, sviluppando competenze specifiche. Il liceo trasmetteva invece le conoscenze considerate essenziali per acquisire una cultura generale di alto livello ed era frequentato dai ragazzi dei ceti superiori, che avrebbero acquisito specifiche competenze professionali con gli studi universitari. Va anche detto che molti ragazzi non frequentavano nessuna scuola secondaria, limitando i propri studi o alla scuola elementare (all’epoca sufficiente per assolvere l’obbligo) o alla scuola di avviamento professionale, che permetteva l’ingresso nel mercato del lavoro già a quattordici anni (e solo superando un esame integrativo l’eventuale accesso agli istituti tecnici).

Questo tipo di scuola rifletteva la struttura sociale dell’epoca, stratificata in una serie di classi sociali nettamente distinte sia sul piano del reddito sia su quello culturale. Se prescindiamo dalle famiglie in povertà assoluta e dai pochi privilegiati possessori di grandi fortune, se ne potevano individuare tre, alle quali il sistema scolastico offriva tre diversi percorsi. I ragazzi del ceto inferiore terminavano gli studi senza frequentare una scuola secondaria, per poi accedere a lavori esecutivi subalterni; quelli del ceto intermedio accedevano a un istituto secondario che li avrebbe introdotti a un lavoro detto “di concetto” (come era quello di ragionieri, geometri, periti, maestri, …); vi era infine il percorso privilegiato liceo + università, che dava accesso ai ruoli dirigenti. Questa tripartizione si rifletteva in molti settori della vita civile: i dipendenti statali erano ufficialmente divisi nei livelli A, B o C, a seconda se provvisti di laurea, di un diploma di scuola secondaria o se avevano assolto solo l’obbligo scolastico e anche i treni avevano tre classi, molto diverse tra loro, nelle quali quasi sempre (per una scelta volontaria, dovuta non solo al prezzo del biglietto) viaggiavano le tre categorie di cittadini.

Lo schema appena delineato è una semplificazione, ma la realtà ne differiva poco: la principale differenza consisteva, prima della riforma Gentile, nell’esistenza della sezione fisico-matematica degli istituti tecnici: una scuola che forniva una buona preparazione scientifica e permetteva l’iscrizione all’università nelle facoltà di ingegneria e di scienze. La principale novità introdotta con la riforma Gentile fu la soppressione di questa scuola e la creazione del liceo scientifico: un ibrido, a mio parere nato male, tra il precedente liceo unico (che continuò a esistere con il nome di liceo classico) e la vecchia sezione fisico-matematica abolita: una scuola che, rispetto a quest’ultima, dava una preparazione scientifica nettamente inferiore, ma aggiungeva lo studio del latino e permetteva l’iscrizione a quasi tutte le facoltà universitarie, escludendo solo quelle di giurisprudenza e di lettere e filosofia. Dopo la riforma la scuola secondaria non dette più a nessuno una preparazione scientifica pari a quella assicurata dalla vecchia sezione fisico-matematica: molti scienziati (come l’antifascista Vito Volterra e il fascista Antonio Garbasso) ne furono allarmati; divenne inoltre obbligatorio per gli aspiranti ingegneri studiare il latino, mentre fu per la prima volta possibile diventare medici senza avere studiato il greco: due novità apparentemente di segno opposto che furono criticate da molti per opposte ragioni.

La scuola di cui stiamo parlando era certamente una scuola classista. Occorre però fare due precisazioni. Innanzitutto non era certamente la scuola a creare le divisioni di classe; la scuola semplicemente rifletteva, come non avrebbe potuto non fare, la situazione sociale dell’epoca. La seconda precisazione, a mio parere di grande importanza, è che le classi sociali, pur essendo nettamente differenziate, non erano affatto caste: era difficile ma non impossibile per un ragazzo proveniente da una classe inferiore accedere a una classe superiore e lo strumento essenziale per farlo era il successo scolastico. La scuola svolgeva cioè il ruolo di ascensore sociale e lo svolgeva grazie alla selezione. Si sottolinea spesso che si trattava di una selezione iniqua perché era fatta in base ai risultati, senza tener conto delle diverse condizioni di partenza: osservazione certamente giusta, ma che non contraddice il fatto che una minoranza di ragazzi, particolarmente dotati, riuscisse ad accedere a migliori condizioni di vita grazie all’impegno nello studio. Per fare un esempio si può ricordare Edoardo Perroncito, figlio di un calzolaio e una sarta, che nel 1867, all’età di venti anni, si laureò in veterinaria a Torino per poi occupare la prima cattedra italiana di parassitologia: divenne famoso per essere riuscito a debellare l’anemia del minatore che aveva ucciso migliaia di lavoratori. Per fare un altro esempio si possono ricordare Vincenzo Corbino e Rosaria Imprescia, una coppia di modesti pastai siciliani che ebbe otto figli: quattro femmine e quattro maschi. Solo i maschi andarono a scuola, con risultati molto diversi. I più bravi furono Orso Mario, che avrebbe creato la scuola di fisica di via Panisperna e sarebbe stato senatore e ministro, ed Epicarmo, divenuto un famoso economista e anche lui ministro; degli altri due uno morì da emigrante in America e l’altro divenne un sottufficiale dei carabinieri. Oggi la mobilità sociale è talmente diminuita da rendere impossibile che il fratello di due ministri sia un sottufficiale o debba emigrare in cerca di lavoro.

La funzione di ascensore sociale della scuola era resa possibile dal fatto che all’epoca la stratificazione sociale interna alla categoria dei lavoratori dipendenti era caratterizzata da una forte correlazione tra reddito e cultura: un ingegnere, un medico o un funzionario di banca guadagnavano stipendi tanto superiori al salario di un operaio da renderli membri di ceti nettamente distinti e la loro posizione sociale dipendeva dal possesso di strumenti culturali acquisibili solo all’università, allora frequentata da una piccola percentuale della popolazione.

Va anche detto che la funzione svolta dal liceo, di fornire una cultura generale di alto livello a chi avrebbe frequentato l’università per poi assumere un ruolo decisionale, era resa possibile dall’esistenza di un’idea condivisa di cultura generale.

 

 

Le trasformazioni degli anni Sessanta

 

Il sistema scolastico italiano fu profondamente modificato negli anni Sessanta del secolo scorso grazie a due riforme: l’istituzione della scuola media unica nel 1962 e la liberalizzazione degli accessi all’università nel 1969.

Con la prima riforma, resa necessaria dai mutamenti economici e sociali del dopoguerra, si ottenne una netta democratizzazione della scuola, aumentando di tre anni l’obbligo scolastico e unificando la scuola destinata ai preadolescenti. Molte riserve possono però essere fatte sul modo in cui la riforma fu realizzata. La nuova scuola media nacque infatti in assenza di un progetto culturale di ampio respiro che ne rendesse chiare le finalità e gli strumenti per realizzarle. Due sintomi di questa assenza furono, da un lato, gli annosi ondeggiamenti  sull’insegnamento del latino (che, prima di essere eliminato, in tempi diversi fu introdotto, semieliminato, reso parzialmente  facoltativo o conservato in stato preagonico) e dall’altro la bassa qualità dell’insegnamento scientifico, giustamente introdotto, ma senza individuarne con chiarezza contenuti e metodi e in assenza di percorsi universitari adatti a prepararne i docenti. Il risultato è stato la nascita di una scuola che, sorta con l’intento meritorio (in parte raggiunto) di democratizzare il nostro sistema scolastico, di fatto ne ha costituito sin dall’inizio, per unanime riconoscimento, l’anello più debole.

Riserve maggiori, a mio parere, riguardano la liberalizzazione degli accessi all’università, decisa frettolosamente in seguito ai moti del sessantotto. Anche in questo caso l’intento dichiarato era quello di superare il classismo del sistema precedente democratizzandolo. Per superarlo realmente si sarebbero dovute però riformare sia la scuola secondaria sia l’università. Si ammise invece direttamente all’università non riformata chi usciva da un percorso pensato per chi non avrebbe dovuto frequentarla e rimasto inalterato. Ad esempio a un diplomato ragioniere, del tutto ignaro di greco e di latino, divenne possibile iscriversi a un corso di laurea in lettere classiche, pensato e organizzato per studenti con un passato di otto anni di studio del latino e cinque anni di studio del greco. È chiaro che erano così possibili solo due esiti: o far perdere uno o due anni allo studente, espellendolo da un’università che aveva solo finto di accoglierlo oppure abbassare drasticamente il livello degli studi universitari.    

Naturalmente l’alternativa di modificare tutto il sistema non era praticabile, perché avrebbe richiesto una riforma realizzata nell’arco di diversi anni, mentre l’orizzonte temporale dei parlamentari che avrebbero dovuto vararla era molto più breve.

In definitiva le riforme degli anni Sessanta innestarono elementi nuovi di democrazia in un sistema che conservava in larga misura la struttura precedente, ma minandola con una serie di contraddizioni.

 

 

 

Gli ultimi trent’anni e oggi

 

Credo che la trasformazione della scuola oggi in atto continui nella sostanza, anche se con qualche nuovo elemento e un’accelerazione della velocità di trasformazione, quella iniziata una trentina di anni fa con la riforma Berlinguer. Un elemento importante di continuità è dato dal ruolo svolto fin d’allora dai pedagogisti, che hanno assunto la guida del processo estromettendo quasi completamente gli esperti delle discipline, tradizionalmente considerati i principali punti di riferimento di ogni riforma scolastica. Questa sostituzione è causa ed effetto di una mutazione profonda nella valutazione delle componenti essenziali dell’insegnamento: non si ritiene più che per progettare una riforma della scuola sia utile consultare, storici, linguisti o matematici, ma solo esperti delle forme dell’insegnamento, nella convinzione che non sia più importante cosa si insegni, ma solo come lo si insegni.

Non si tratta di una novità, come molti sembrano credere. Qualcosa di simile era avvenuto nel mondo mediterraneo quando fu conquistato da Roma.  Nel periodo ellenistico lo sviluppo delle nuove discipline della logica e della grammatica, generate dalla retorica classica, aveva drasticamente diminuito l’interesse di ciò che rimaneva della retorica, ma nel periodo romano il drammatico crollo della scienza e della filosofia si accompagnò a una rivalutazione della nuova retorica, deprivata sia dell’analisi della forza delle argomentazioni sia dello studio delle regole della lingua, ma arricchita delle tecniche declamatorie e gestuali utili a colpire l’uditorio[1]. Cicerone sostenne con forza (ad esempio nel De oratore) la superiorità dell’oratoria sulla filosofia e sulla scienza; sostenne cioè che più del contenuto dei discorsi fosse importante la loro forma. Oggi si assiste a un fenomeno analogo; il termine retorica è in genere sostituito dall’espressione “scienze della comunicazione”, ma l’idea, oggi come allora, è quella di considerare le forme della comunicazione più importanti dei contenuti (non solo nel caso, che qui ci interessa, della comunicazione tra insegnanti e studenti, ma anche in politica e nelle altre forme di comunicazione).

Lo spostamento dell’interesse dai contenuti dell’insegnamento alle sue modalità ha comportato un attacco sempre più deciso alle discipline scolastiche. Si è cominciato con il modificare l’esame di stato finale, che verte ormai solo su un tema interdisciplinare. Si è proseguito dando sempre maggiore spazio alle UDA (Unità Didattiche di Apprendimento), cioè a temi che per la loro attualità dovrebbero attirare l’interesse degli studenti, ai quali le varie discipline dovrebbero contribuire fornendo nozioni immediatamente utilizzabili nella trattazione dell’argomento scelto. Si sono poi introdotti insegnamenti trasversali, come l’educazione civica, che coinvolgono diversi docenti facendo convergere le loro competenze su un unico tema. Negli ultimi concorsi per l'accesso ai ruoli del personale docente della scuola si è infine deciso di non valutare più la competenza dei candidati nella propria disciplina, ma solo su argomenti di pedagogia: si valuta cioè essenzialmente la loro adesione al progetto pedagogico imposto.

I passi precedenti convergono con chiarezza verso l’obiettivo di eliminare i contenuti disciplinari dalla scuola.

L’eliminazione delle conoscenze dalla scuola è stata giustificata contrapponendole alle competenze, cioè alla capacità di svolgere particolari compiti e mansioni. è stato detto giustamente che non vi sono competenze senza conoscenze. Il rapporto tra i due aspetti del sapere non è però lo stesso in tutti gli insegnamenti. Esistono insegnamenti nei quali le conoscenze, pur essendo necessarie, sono strumentali e immediatamente finalizzate all’acquisizione di competenze specifiche: è quanto avviene, ad esempio, in una scuola guida o in un corso di programmazione ed è quanto avveniva nelle scuole di avviamento professionale abolite nel 1962. L’obiettivo di  molti insegnamenti tradizionali delle scuole secondarie italiane, come quelli della storia, della filosofia e della letteratura, non è invece l’acquisizione di competenze specifiche, ma fornire cultura, ossia strumenti intellettuali che permettano di vivere una vita più ricca e analizzare criticamente la realtà in cui si è immersi. Il progetto di sostituire le competenze alle conoscenze punta quindi a eliminare dalla scuola questi insegnamenti e con loro la cultura.

Stobeo racconta che un allievo di Euclide, dopo che ebbe studiato la dimostrazione della prima proposizione degli Elementi (la costruzione del triangolo equilatero), chiese al maestro cosa avrebbe guadagnato imparando quelle cose. Euclide disse allora al suo schiavo di dargli una monetina “perché quel giovane aveva bisogno di guadagnare qualcosa dallo studio”. Questo aneddoto, spesso citato, è molto interessante (anche se poco attendibile), ma credo sia stato in genere male interpretato. Molti lo considerano un invito ad ammirare le verità geometriche in sé, indipendentemente dalle possibili applicazioni, che sarebbero effetti collaterali secondari e irrilevanti. La realtà è molto diversa. La geometria euclidea costituiva (e in qualche misura costituisce ancora) un formidabile strumento per molte scienze applicabili a vari settori delle attività umane. All’epoca di Euclide l’ottica (essenziale per i pittori come per i costruttori di strumenti ottici utili per il rilevamento topografico, la navigazione e altro), la meccanica (ossia la scienza della costruzione di macchine), l’idrostatica (essenziale per l’ingegneria navale) e altre scienze si sviluppavano con metodi geometrici. Il rapporto tra la geometria e queste applicazioni non riguardava però le singole proposizioni, ma l’intera costruzione concettuale. Solo impadronendosi del metodo dimostrativo e delle strutture essenziali della geometria si sarebbero potuti dimostrare teoremi di scienze applicate che generavano risultati utili agli ingegneri. L’Euclide dell’aneddoto aveva elegantemente deriso quel suo allievo perché non voleva sapere in cosa la geometria fosse utile alla società, ma cosa avrebbe ricavato lui dalla conoscenza di un particolare teorema; quell’allievo avrebbe cioè voluto seguire la nostra scuola riformata, in cui si dovrebbero apprendere solo le nozioni matematiche direttamente utilizzate in un’Unità Didattica di Apprendimento. La stessa idea è sostenuta da Cicerone quando afferma che, mentre i Greci avevano tenuto in grande onore la geometria, i Romani l’avevano (a suo parere giustamente) limitata a ciò che era utile[2]. Non a caso il calco latino del termine greco geometria, che è agrimensura, assunse un significato molto diverso dall’originale. I Romani, anticipando la tendenza in atto, sostituirono alle conoscenze geometriche le competenze necessarie a un agrimensore. Naturalmente nessun romano ha mai ottenuto risultati di geometria.

Un discorso analogo può essere fatto per la storia. Lo studio della storia, individuando l’origine delle nostre istituzioni e di tutti gli altri aspetti della vita attuale, permette una comprensione molto più profonda del presente, ma ciò non significa che si possa o si debba giustificare a uno studente lo studio di ogni pagina del testo di storia mostrandogli la sua attualità e utilizzazione pratica. Se si sostituisce allo studio della storia l’inserimento di noterelle storiche decontestualizzate in una Unità Didattica di Apprendimento su temi attuali (come possono essere la condizione femminile, l’ecosostenibilità o altri temi simili) ciò che viene meno è lo spessore storico; ancora una volta si elimina la cultura.

La volontà dei riformatori di eliminare la cultura dalla scuola è confermata dall’insistenza ossessiva sulla cosiddetta “transizione digitale”. Se ne può avere un’idea leggendo l’imbarazzante “Piano scuola 4.0” varato dal governo Draghi con il decreto del Ministro dell’istruzione n. 161 del 14 giugno 2022: un documento, scritto nello stile delle presentazioni di vendita, in cui le parole digitale, innovazione e innovativo si avvolgono su sé stesse creando innumerevoli cortocircuiti logici[3]. Preparare un piano per il futuro della scuola dedicato quasi esclusivamente alla qualità tecnica di strumenti didattici, sorvolando sui fini del loro uso, è naturalmente di per sé un modo per ribadire l’irrilevanza dei contenuti dell’insegnamento. Si insiste sull’importanza di trasformare le vecchie aule in mirabolanti “ambienti di apprendimento innovativi” dotati di strumenti avveniristici e si specifica che per la trasformazione di 100.000 classi nei nuovi ambienti di apprendimento innovativi è previsto un finanziamento di 2,1 milioni di euro. Gli estensori del documento devono essere riusciti a frequentare anzitempo la scuola innovativa e digitale da loro pianificata, giacché non sono stati in grado di effettuare la divisione che forse avrebbe permesso loro di capire che ventuno euro difficilmente possono essere una somma sufficiente a trasformare una vecchia e brutta aula nell’ambiente innovativo supertecnologico dei loro sogni. Una piccola parte del documento è dedicata ai due scopi del piano. Il primo è la formazione di specialisti in “aree quali l’intelligenza artificiale, la cybersicurezza e il calcolo quantistico”. L’idea che una scuola in cui nozioni di matematica e fisica saranno introdotte (da docenti assunti sulla base delle sole loro competenze pedagogiche) solo quando ritenute immediatamente utili possa preparare esperti in calcolo quantistico farebbe ridere se non fosse tragica. È evidente che gli estensori del documento non hanno la minima idea di cosa siano l’intelligenza artificiale o il calcolo quantistico, ma hanno voluto impreziosire il documento inserendovi termini di cui non conoscono il significato, ma che sono loro sembrati altrettanto innovativi dei nuovi ambienti di apprendimento.

L’altro scopo della nuova tecnologia è più chiaro: gli studenti potranno fruire contenuti “attraverso la realtà virtuale e aumentata”. Il documento sottolinea quanto sia innovativo questo obiettivo, aggiungendo la poco illuminante informazione che “l’utilizzo del metaverso in ambito educativo costituisce un recente campo di esplorazione, l’eduverso”.

In realtà la vera novità meritevole di discussione che le nuove tecnologie digitali possono apportare alla didattica è l’uso di simulazioni, che credo possano e debbano svolgere un ruolo importante nell’insegnamento scientifico. è però essenziale introdurle in modo corretto e didatticamente efficace. Personalmente, molti anni fa, nell’ambito del Progetto Lauree Scientifiche, ho partecipato a un’esperienza molto interessante al liceo scientifico Augusto Righi di Roma: gli studenti studiavano semplici modelli di sistemi dinamici attraverso simulazioni al computer, riconoscendo così “sperimentalmente” se l’evoluzione tendeva a un punto fisso, a un andamento periodico o era caotica. Ricordo che i ragazzi erano interessati e divertiti e imparavano molto.

Bisogna essere consapevoli che la scienza si sviluppa elaborando modelli di fenomeni reali e le simulazioni permettono di esplorare il modello usato da chi le ha programmate e non la realtà. Perché il loro uso sia didatticamente efficace sono quindi essenziali due condizioni:

  1. Gli studenti debbono conoscere il modello alla base della simulazione o, perlomeno, sapere che un tale modello esiste. Per raggiungere questo obiettivo alcune delle simulazioni più semplici dovrebbero essere programmate da loro. In questo caso anche vedendo simulazioni complesse che non sarebbero in grado di realizzare avranno comunque un’idea del lavoro di programmazione necessario per la loro realizzazione.
  2. Le simulazioni devono affiancare e non sostituire gli esperimenti.

L’idea, a mio avviso perniciosa ma cara agli estensori del Piano scuola 4.0, di eliminare dalla didattica il mondo reale immergendo gli studenti nel virtuale non è così antica come quella di privilegiare la forma della comunicazione sui contenuti, ma non è neppure tanto recente quanto molti sembrano credere. L’esempio più antico che conosco risale agli anni intorno al 1370, quando Giovanni Dondi dell’Orologio costruì il suo famoso astrario, che riproduceva i moti dei pianeti secondo il modello tolemaico, e ne scrisse un’accurata descrizione premettendo le motivazioni del suo lavoro: lo strumento, a suo parere, sarebbe stato utile soprattutto perché da allora in poi gli astronomi avrebbero potuto evitare di rubare ore al sonno per osservare il cielo, limitandosi a osservare con cura in ore comode il suo astrario.

Giovanni Dondi costruiva simulazioni. I riformatori della scuola  che si limitano a decantarle sono naturalmente molto meno consapevoli di lui. Alcuni di loro, essendo ignari dell’esistenza di teorie e modelli, hanno sostenuto che nella didattica l’osservazione di una simulazione dovrebbe sostituire sia l’osservazione del fenomeno reale sia lo studio della teoria. Credono che l’astronomia, ad esempio, potrebbe essere “studiata” immergendosi in una realtà virtuale in cui si possa viaggiare tra le lune di Giove e immaginano che lo studio della storia romana, analogamente, potrebbe essere vantaggiosamente sostituito da una passeggiata virtuale nelle strade di Roma antica. In entrambi i casi lo studente dovrebbe immergersi in realtà virtuali prefabbricate, senza alcuna conoscenza dei modelli usati da chi le ha realizzate e dei loro limiti di validità. Fortunatamente queste sciocchezze sono ormai passate di moda e sembrano essere ancora prese sul serio solo a viale Trastevere. Naturalmente le nuove tecnologie possono essere utilissime anche nell’insegnamento di argomenti come la storia antica, purché si eviti di dare valore di verità assoluta a “realtà virtuali” costruite sulla base di modelli sempre provvisori e criticabili e soprattutto non si pensi che la percezione di stimoli sensoriali possa sostituire le sintesi concettuali.

Un altro aspetto importante della trasformazione avvenuta nella scuola è la fine della selezione.  Promuovendo tutti ed equiparando il valore dei titoli rilasciati da tutte le scuole si elimina ogni riconoscimento all’impegno scolastico e si sottrae alla scuola la sua vecchia funzione di ascensore sociale. La selezione – va sottolineato - non deve avvenire necessariamente attraverso le bocciature che un tempo facevano perdere anni agli studenti; in molti paesi (ad esempio in Francia e in Giappone) consiste soprattutto nel riservare ai più meritevoli l’iscrizione alle università migliori, che sono ufficialmente tali e svolgono la funzione di preparare le classi dirigenti. Da noi tutte le università sono ufficialmente equivalenti e chiunque può iscriversi a qualunque università, con la sola eccezione dei corsi di laurea a numero chiuso, riservati a chi risponde meglio a dei questionari a risposta multipla. Ci si assicura così che gli studenti che vogliono diventare, ad esempio, medici o odontoiatri, vista l’inutilità dell’esame di stato, ridotto a un rito vuoto, negli ultimi anni del liceo trascurino gli studi curricolari e, dedicando ogni impegno alla preparazione dei test di ingresso, abbassino ulteriormente il proprio livello culturale.

  Le trasformazioni imposte alla scuola hanno ottenuto il risultato che la grande maggioranza dei nostri diplomati non solo non ha più conoscenze storiche e geografiche che permettano loro di inquadrare nel tempo e nello spazio la propria esperienza diretta, né possiede elementi del metodo scientifico, ma non sa neppure scrivere un testo corretto nella propria madrelingua e riesce ad esprimersi oralmente solo con una sintassi infantile e un lessico drammaticamente povero. Questo risultato non è tuttavia ritenuto sufficiente da politici e pedagogisti, che vogliono accelerare la trasformazione in atto per eliminare del tutto i residui di cultura che molti docenti, fortunatamente refrattari ai nuovi indirizzi, continuano con ostinazione a tentare di trasmettere.

Alla base della trasformazione in atto della scuola non vi è alcuna nuova vera teoria pedagogica. Il nuovo indirizzo viene sostenuto soprattutto con il tautologico argomento che, essendo appunto nuovo, è certamente innovativo, termine che la neolingua oggi imperante ha reso sinonimo di ottimo, rendendo così inesprimibili le critiche a chi ha il potere di decidere quali novità introdurre. Un altro artificio usato per respingere gli argomenti di chi vuole opporsi alla distruzione della cultura usa la premessa della centralità dello studente nel processo di apprendimento: un’ovvietà che nessuno ha mai pensato di negare. Ogni scuola ha sempre considerato centrale lo studente, ma i suoi fini principali sono sempre stati quelli di assicurargli un avvenire migliore e renderlo socialmente utile. Gli attuali innovatori invece, eliminando il ruolo sociale della scuola e confondendo il bene dello studente con il suo benessere immediato, ne traggono la conseguenza che il solo fine della scuola sia quello di assicurargli  alcune ore di piacevole intrattenimento. La scuola diviene così un luogo di ricreazione e socializzazione. Allo stesso modo si dovrebbe pensare che le facoltà di medicina abbiano il solo scopo di far trascorrere piacevolmente il tempo agli studenti di medicina. Naturalmente – è forse inutile sottolinearlo - il benessere immediato degli studenti, sia della scuola secondaria sia della facoltà di medicina, va perseguito ed è importante, ma anche e soprattutto perché agevola il perseguimento dei fini delle rispettive istituzioni, che sono altri. 

Un altro paralogismo usato da chi vuole espellere le conoscenze dalla scuola parte dalla premessa che non è tanto importante imparare qualcosa quanto imparare ad imparare, un’altra ovvietà da cui alcuni credono di poter dedurre, con un’acrobazia logica, che quindi bisogna solo imparare ad imparare: una conclusione doppiamente assurda, sia perché si impara a imparare solo imparando qualcosa, sia perché è del tutto inutile imparare ad imparare se non si vuole imparare nulla.

A onore dei riformatori va detto che debbono essersi resi conto che finanziare una scuola secondaria in cui non si insegni più nulla non è un modo particolarmente intelligente di spendere fondi pubblici; hanno infatti deciso, come passo ulteriore del processo di riforma, di realizzare un bel risparmio sottraendole uno dei cinque anni (per ora in un campione di scuole particolarmente innovative); prima o poi capiranno che per risparmiare di più conviene sopprimere anche gli altri quattro.

 

 

Perché?

 

Credo sia essenziale cercare di capire le ragioni del continuo degrado della scuola sommariamente descritto finora. Non credo alla tesi complottista che si tratti di un disegno consapevole volto a sottrarre strumenti critici alla popolazione per poterla manovrare meglio, anche se qualche documento fa sospettare che questa intenzione sia presente in qualcuno[4].

Non credo neppure che all’origine della trasformazione vi sia il progetto di dare agli studenti competenze utili al sistema produttivo. Infatti la trasformazione subita dagli istituti tecnici industriali li ha allontanati più che avvicinati alle esigenze del mondo produttivo e anche la disgraziata introduzione dell’alternanza scuola-lavoro (magnificata sul sito del ministero in quanto modalità didattica innovativa) mi appare più un effetto della scelta ideologica di allontanare la scuola dalla cultura che un progetto seriamente finalizzato ai bisogni della produzione. A proposito di questa alternanza va detto che l’incredibile capacità italiana di usare espedienti fantasiosi per eludere le leggi in questo caso ha dato ottimi risultati: molti docenti, muovendosi con astuzia tra le maglie della legge e usando sotterfugi vari, riescono a trasformare quelle ore in occasioni clandestine di vera crescita culturale dei loro allievi.                                                                                  

Bisogna sottolineare che il processo sommariamente descritto finora ha riscosso l’approvazione di tutti i partiti politici e tutte le forze sociali (dalla Confindustria, particolarmente attiva nel cercare di accelerare l’opera di degrado, ai sindacati, con qualche timida opposizione intermittente della Gilda degli insegnanti). Anche l’Unione Europea ha fatto la sua parte. Il piano scuola 4.0 consiste in un’esposizione degli interventi previsti nel PNRR da attuare con fondi europei per raggiungere obiettivi fissati dall’UE (anche se il piano riesce nella non facile impresa di peggiorarli notevolmente).

Le scuole degli altri paesi europei hanno seguito lo stesso processo di trasformazione in anticipo sull’Italia e solo recentemente è apparso qualche segno di volere invertire la tendenza (ad esempio in Francia). Gli Stati Uniti ci avevano preceduto di gran lunga, riducendo a livelli indecorosi la quasi totalità delle loro scuole secondarie e la grande maggioranza degli istituti universitari. Avevano però potuto mantenere una serie di centri universitari di eccellenza grazie alla continua importazione di docenti e studenti dai paesi, un tempo europei e ora asiatici, dotati ancora di scuole secondarie non degradate.

È evidente che siamo di fronte a un processo storico di grande portata, che non può essere spiegato sulla base delle scelte di qualche individuo, ma solo cercandone le ragioni oggettive nelle trasformazioni intervenute nella struttura economica e sociale e nella cultura.

La “vecchia scuola” presente nel nostro paese nel primo secolo dopo l’unità era funzionale alla struttura economica e sociale dell’epoca e non poteva sopravvivere ai cambiamenti avvenuti nella seconda metà del Novecento, tra i quali credo che per il nostro tema siano particolarmente importanti la concentrazione delle attività economiche e la crisi della classe media.

La concentrazione di gran parte non solo della produzione industriale ma anche di vasti settori del terziario nelle mani di pochi gruppi, l’avvento dell’automazione nelle industrie e il dilagare della cosiddetta “rivoluzione digitale” in tutti i settori sono all’origine di una drastica rarefazione delle competenze richieste dal mercato del lavoro. Ad esempio quando buona parte del commercio era nelle mani di piccole imprese familiari ogni piccolo commerciante doveva essere in grado di interpretare i bisogni e le possibilità della clientela e dei produttori e su questa base scegliere i prodotti da acquistare, da quali produttori acquistarli, a quali prezzi metterli in vendita e come consigliare i clienti. Oggi una cassiera di un supermercato deve solo compiere una serie di azioni meccaniche e ripetitive e non deve né saper fare una somma, né saper distinguere i prodotti tra loro, compiti delegati a macchine, mentre le decisioni sono riservate ai dirigenti dell’intera catena. Il confronto tra un piccolo libraio e un dipendente di Amazon è ancora più desolante. Un tempo un funzionario di banca doveva saper valutare la solidità economica di un’impresa per decidere se concederle credito, mentre oggi le concessioni di credito sono stabilite da software appositi. Moltiplicare gli esempi sarebbe tanto facile quanto inutile. Si dice spesso che viviamo nella società della conoscenza, ma se è vero che il funzionamento della nostra società è basato su conoscenze sempre più complesse e raffinate, è altrettanto vero che si tratta di conoscenze concentrate in una frazione minuscola e continuamente decrescente di persone e non si può certo pensare che una scuola di massa, quale è oggi la scuola secondaria, possa essere progettata per la loro formazione.

Si può anche osservare che in paesi come il nostro in molti casi le competenze di massimo livello sono state eliminate del tutto. Nei settori di tecnologia avanzata da cui siamo usciti non abbiamo più bisogno di fisici né di ingegneri e, non avendo più a livello nazionale né una politica monetaria né una vera politica estera, non ci servono più né bravi diplomatici né economisti di valore, quali un tempo si formavano nell’ufficio studi della Banca d’Italia.

Nella nuova situazione il sistema produttivo e commerciale non è più interessato alla scuola come luogo di formazione dei propri futuri dipendenti; per alcune aziende (in particolare  quelle interessate a vendere i prodotti digitali che entusiasmano i riformatori) si tratta soprattutto di un ricco mercato e a tutte le altre interessa come un luogo di addestramento al consumo[5]. Non deve quindi stupire la forte pressione a sostituire sforzi mentali oggi considerati eccessivi e inutili con l’uso crescente di prodotti tecnologici innovativi.

La concentrazione del potere economico e delle competenze si è accompagnata a una profonda crisi della classe media, che tende a scomparire. Mentre aumenta la percentuale della popolazione in condizioni di povertà assoluta (formata da disoccupati e lavoratori in nero sottopagati), nel vasto settore dei lavoratori dipendenti garantiti la vecchia stratificazione in diversi ceti è quasi del tutto scomparsa, lasciando una massa scarsamente differenziata, sempre più lontana da una piccola élite di privilegiati che concentra una quota sempre maggiore della ricchezza totale. È così quasi scomparsa la correlazione tra il livello di reddito e il livello culturale. Il ceto privilegiato è infatti formato da pochi possessori di immense fortune e un gruppo più consistente di personaggi mediatici, impegnati nella politica e nello spettacolo (due mondi sempre più compenetrati), il cui livello culturale non è superiore alla media. Alla fisiologica tendenza dei ragazzi a diminuire la fatica dello studio è venuto così a mancare il contrappeso dei benefici attesi dal successo scolastico. Una conseguenza sotto gli occhi di tutti è il cambiamento dell’atteggiamento delle famiglie nei confronti della scuola: i genitori, un tempo alleati dei docenti nel sollecitare l’impegno scolastico dei figli, sono divenuti per lo più alleati dei figli nel richiedere continui alleggerimenti del peso dello studio. Naturalmente i politici si adeguano, anche senza avere piena consapevolezza dei processi in atto.

Una seconda radice della trasformazione della scuola è nel venir mano di una cultura generale con contenuti condivisi. Un tempo la cultura generale di alto livello aveva il suo fondamento riconosciuto negli studi classici. Nel corso del Novecento questo ruolo della cultura classica è stato contestato e disconosciuto, prima negli Stati Uniti e poi in Europa, senza che nessuna costruzione intellettuale moderna riuscisse a sostituirla[6]. Le ricerche nei diversi settori hanno continuato a ramificarsi e specializzarsi in assenza di una riconosciuta base unitaria[7]; è venuta così meno la funzione tradizionale del liceo europeo di trasmettere una cultura generale condivisa.

Anche le singole discipline sono entrate in crisi, rendendo difficile l’individuazione di un corpus di conoscenze basilari da trasmettere alle nuove generazioni. Consideriamo in particolare due settori che credo essenziali per una seria cultura generale: gli studi storici e quelli scientifici.

Un tempo in Italia si avevano idee chiare sulle conoscenze storiche meritevoli di essere condivise dai ceti colti: a qualche elemento di storia egiziana e dell’antico oriente seguiva la storia della Grecia e di Roma e quella dell’Europa; gli altri continenti erano presi in considerazione dopo la loro “scoperta” da parte degli Europei (era il caso dell’America) o come oggetto di colonizzazione (era il caso dell’Africa). Le grandi civiltà asiatiche erano quasi completamente trascurate. Bisogna dire che questo schema, con tutti i gravi limiti oggi evidenti, era preferibile a quello usato nella didattica di quasi tutti gli altri paesi occidentali, sia per la profondità temporale assicurata dal notevole peso dato al mondo antico, sia perché la brevità della nostra storia unitaria lasciava spazio alla storia europea, mentre in altri paesi ci si concentrava molto di più sulle proprie vicende nazionali.

La concezione precedente della storia è entrata in crisi all’epoca della decolonizzazione, ma non è stata sostituita da un’altra sintesi condivisa. L’unica nuova idea è stata quella di privilegiare la storia contemporanea, non tanto perché è necessariamente planetaria, quanto per la tendenza generale a concentrare l’insegnamento su ciò che si ritiene immediatamente connesso all’esperienza diretta degli studenti. Naturalmente l’attacco alla cultura e agli insegnamenti disciplinari ha finito col colpire anche la storia contemporanea: l’eliminazione del tema storico dall’esame di stato ne è stata una chiara prova. In ogni caso l’insegnamento della storia precedente (essenziale per capire la storia contemporanea quanto questa lo è per capire il presente) diviene di fatto impossibile se la condanna dell’eurocentrismo la fa concepire come una collezione di tante storie disgiunte, tutte egualmente rilevanti.

Anche il grave degrado dell’insegnamento scientifico può essere meglio compreso esaminando le caratteristiche degli sviluppi scientifici e tecnologici dell’ultimo secolo.

In questo periodo le conoscenze scientifiche disponibili sono cresciute enormemente, permettendo lo sviluppo di nuove tecnologie di potenza ed efficienza senza confronti nel passato, ma il rapporto tra le nuove conoscenze e la cultura condivisa è divenuto sempre più problematico.

I ricercatori hanno lavorato in campi sempre più specialistici e ristretti, rendendo difficile la comunicazione dei propri risultati non solo al pubblico, ma spesso anche ai ricercatori attivi in settori affini al proprio. Inoltre le teorie sviluppate, soprattutto in fisica e in matematica, hanno dovuto spesso allontanarsi dal senso comune basato sull’esperienza quotidiana per costruire modelli di fenomenologie lontane da quell’esperienza. L’unica conoscenza relativa a questi sviluppi che arriva ai profani è quella dell’avvenuta falsificazione delle teorie classiche compatibili con il senso comune. Questo processo è cominciato in realtà ben prima di un secolo fa. Le geometrie non euclidee, per esempio, risalgono al primo Ottocento, ma l’unica loro ricaduta sulla cultura condivisa è stata l’idea che la sola geometria familiare ai non matematici, cioè quella euclidea, sia stata superata da teorie strane e incomprensibili. La teoria della relatività e la meccanica quantistica hanno avuto una ricaduta simile, ma con effetti molto più devastanti.

Chi insegna materie scientifiche in una scuola secondaria sembra costretto a scegliere tra due alternative, una peggiore dell’altra: o evitare la scienza dell’ultimo secolo, limitandosi a insegnare contenuti che anche agli studenti appaiono superati, oppure affrontare argomenti necessariamente fuori dalla portata dei ragazzi. Nel primo caso i contenuti dell’insegnamento perderanno ogni rapporto non solo con le notizie sulla scienza reperibili navigando in rete o dai programmi televisivi, ma anche con la tecnologia usata quotidianamente. Nel secondo caso, non potendo trasmettere né i raffinati strumenti matematici usati dai fisici moderni, né le complesse basi sperimentali delle nuove teorie, si finisce fatalmente col sostituire alla didattica scientifica una superficiale divulgazione.

Bisogna anche dire che l’allontanamento delle teorie dal senso comune, soprattutto nel campo della fisica, ha creato seri problemi anche agli stessi scienziati, inserendo spesso elementi irrazionalistici nell’ambito della ricerca. Per fare un solo esempio ricordo che Brian Josephson (premio Nobel per la fisica nel 1973 per la scoperta dell’effetto che porta il suo nome) è stato attivo per decenni all’Università di Cambridge (UK) alla guida di un gruppo di ricerca (Mind Matter Unification Project) dedito allo studio delle connessioni tra meccanica quantistica, parapsicologia e varie forme di misticismo orientale. Il gruppo si è occupato di meditazione trascendentale, telepatia, telecinesi, percezioni extrasensoriali e vari altri fenomeni paranormali. Questo caso è rilevante perché riguarda un premio Nobel, ma la contaminazione tra meccanica quantistica e fuffa pseudoscientifica è un fenomeno diffusissimo: basta fare una ricerca su Google per rendersi conto che il termine “quantistico” è oggi usato molto più spesso in ambito pseudoscientifico che in ambito scientifico. In questa situazione una divulgazione superficiale su questi temi, non potendo fornire strumenti che permettano di distinguere con chiarezza tra i due livelli, rischia di allontanare i ragazzi dal metodo scientifico più che avvicinarli.

Anche il metodo dimostrativo, che per più di due millenni è stato ritenuto un pilastro fondamentale della scienza, non solo è stato abbandonato nella quasi totalità delle scuole dell’occidente, ma ha cominciato a essere criticato e contestato anche da una parte degli stessi scienziati, ad esempio da chi ritiene che possa essere utilmente sostituito dall’analisi automatica di enormi quantità di dati (i Big Data spesso considerati una panacea universale).

Un altro problema, strettamente connesso al precedente, è posto dalle nuove tecnologie, che coniugano l’efficienza con l’opacità. Un tempo i ragazzi potevano capire il funzionamento di un prodotto tecnologico osservandolo dopo averlo smontato. Oggi l’impossibilità di capire perché un cellulare, un computer o anche un televisore possa funzionare genera un nuovo rapporto con la tecnologia: un bambino non si chiede più dei perché in senso causale, ma solo in senso finale: il cellulare si connette a internet semplicemente perché lui ha premuto un certo tasto e questa spiegazione lo soddisfa pienamente. Grazie ai progressi scientifici e tecnologici, le cause finali di Aristotele sono ridivenute attuali.

 

 

Che fare?

 

Cosa si può fare per cercare di invertire la direzione disastrosa in cui si sta muovendo il nostro sistema scolastico? Credo che per creare un’alternativa seria alla deriva attuale bisognerebbe intervenire non solo sulla politica scolastica, ma soprattutto sui due piani all’origine del degrado: quello culturale e quello della struttura produttiva del paese. Si tratta di interventi difficili, ai quali posso qui solo accennare.

Sul piano culturale, se si vuole tornare a una scuola secondaria che trasmetta una seria cultura generale, occorre anzitutto rifondare una cultura generale, oggi latitante. Per cultura generale non intendo una cultura che si possa realisticamente sperare venga condivisa dall’intera popolazione, ma un insieme di strumenti intellettuali e contenuti che il sistema scolastico dovrebbe mettere a disposizione di chiunque li voglia acquisire e che sarebbe auspicabile fossero condivisi da chi voglia raggiungere una comprensione critica del mondo che lo circonda, indipendentemente dal particolare settore in cui decida di lavorare.

Un primo problema riguarda la cultura scientifica. Come si può estrarre dall’enorme mare delle conoscenze scientifiche oggi virtualmente disponibili un insieme di conoscenze basilari utili anche ai non scienziati?

Per quanto riguarda le scienze esatte, credo innanzitutto che sia essenziale mantenere e rivitalizzare l’uso del metodo dimostrativo. Per più di due millenni si è pensato che fosse utile anche a rafforzare le capacità argomentative e la constatazione che il suo abbandono nelle scuole (con qualche felice eccezione) si sia accompagnato a un brusco indebolimento di queste capacità fa pensare che quell’antica opinione non fosse sbagliata. Negli ultimi secoli il metodo dimostrativo è stato trasmesso soprattutto attraverso lo studio della geometria, che è insostituibile, perché permette di coniugare il rigore dell’argomentazione con l’intuizione visiva, mentre un insegnamento matematico che sostituisce la dimostrazione di teoremi con successioni di passaggi algebrici automatici ha un valore formativo incomparabilmente minore. È naturalmente essenziale sviluppare la capacità di costruire dimostrazioni e non solo quella di memorizzarne qualcuna. Allo stesso tempo credo sia importante mostrare la potenza di questo metodo vedendolo all’opera anche in settori diversi dalla geometria.

La scienza consiste in teorie che forniscono modelli dei fenomeni osservabili in un dato ambito. Una teoria è valida (cioè pienamente scientifica) se e in quanto fornisce un modello efficace e non deve essere considerata falsa perché esistono fenomeni che esulano dal suo ambito. Questo punto è essenziale. Teorie come la geometria euclidea o la meccanica classica sono teorie scientifiche valide e applicabili e non sono state affatto sostituite dalle teorie successive, che sono utili a modellizzare fenomeni diversi. Se questo punto è chiaro, diviene ovvia l’insensatezza di volere inseguire le ultime novità: nella didattica scientifica delle scuole secondarie non bisogna stupire l’uditorio con chiacchiere vaghe sui bosoni di Higgs, i buchi neri e la quinta dimensione, ma spiegare il meccanismo di formazione dei modelli della scienza esatta con esempi che possano essere sviluppati compiutamente, mettendo in grado gli studenti di usare teorie di cui conoscono le basi sperimentali per risolvere problemi. Naturalmente non bisogna evitare tutti gli sviluppi scientifici dell’ultimo secolo, ma occorre selezionare quelli suscettibili di un insegnamento serio e non di pura divulgazione. Ad esempio credo sia utile introdurre elementi di teoria dell’informazione e si possa anche spiegare qualcosa sui sistemi dinamici caotici.

Un altro punto essenziale credo sia sottolineare che lo scopo delle teorie è quello di salvare i fenomeni, ossia fornire modelli utili di fenomeni osservabili (in natura o con appositi esperimenti). Apprendere mnemonicamente una teoria senza sapere di quali fenomeni fornisce il modello equivale a memorizzare la soluzione di un problema che si ignora: è inutile e controproducente, ma purtroppo è ciò che si fa spesso a scuola. Ad esempio la maggioranza delle persone che si considerano colte crede di sapere che la Terra gira intorno al Sole e che la materia è composta di atomi ma non saprebbe citare neppure un fenomeno che possa spiegarsi solo con la teoria eliocentrica o con la teoria atomica. Si tratta evidentemente del frutto di una didattica basata sull’idea di dover trasmettere la conoscenza della struttura vera del mondo e sull’incomprensione della natura di modello delle teorie scientifiche.

Per una seria comprensione della scienza è spesso necessario conoscere qualcosa della sua storia, per due motivi. Innanzitutto conoscere l’origine di una teoria significa anche individuare i fenomeni che l’hanno motivata; una conoscenza storica permette perciò di non perdere l’essenziale rapporto tra la teoria e la realtà concreta. Inoltre se si conosce solo la struttura finale di alcune teorie, senza sapere come e perché sono state costruite, non si può comprendere il metodo con cui si fa scienza; allo stesso modo non si può capire come galoppa un cavallo osservando una singola foto.

L’opacità di gran parte delle tecnologie contemporanee pone un altro serio problema: quale conoscenza sulla tecnologia può entrare nella cultura generale? È certamente impossibile trasmettere a non specialisti la conoscenza del funzionamento di un computer o anche di una videocamera digitale. D’altra parte credo sia essenziale capire perché l’attuale tecnologia possa funzionare, trasmettendo l’idea che ogni prodotto tecnologico in linea di principio sia comprensibile in termini di cause efficienti e non di cause finali. Credo che per raggiungere questo obiettivo siano percorribili due strade: o creare nuove tecnologie trasparenti a scopo didattico (qualche passo in questa direzione comincia a farsi) oppure diffondere la conoscenza di tecnologie obsolete. Un bambino non può capire il funzionamento di un attuale orologio digitale, ma se lo si fa partecipare alla costruzione di un orologio ad acqua[8], vedendo come sia possibile misurare il trascorrere del tempo, può facilmente accettare l’idea che gli orologi si siano poi perfezionati nel corso del tempo.

L’importanza della loro storia per comprendere la scienza e la tecnologia attuali ci riporta al problema di quali conoscenze storiche si possano considerare oggi rilevanti per i cittadini di un mondo largamente globalizzato. L’antica visione eurocentrica non è più proponibile e va certamente modificata per giungere a una nuova sintesi, ma non credo che l’alternativa consista in una collezione di tante storie disgiunte che diano pari peso a tutte le etnie apparse sulla faccia della terra, sia perché in questo modo è del tutto impossibile arrivare a una sintesi proponibile come conoscenza condivisa, sia perché per noi (cioè per gli uomini attuali, in qualsiasi continente vivano) non tutto il passato è egualmente rilevante. Alcuni eventi e processi rivestono maggiore rilevanza perché sono quelli che hanno portato alla civiltà attualmente diffusa in tutto il pianeta. Ad esempio la guerra delle due rose può giustamente non interessare più, in quanto evento relativo a un particolare paese europeo il cui peso nella sintesi storica tradizionale è stato ingiustamente amplificato dalla vecchia visione eurocentrica, ma la rivoluzione industriale ha dato vita a un fenomeno che oggi riguarda tutti e non può essere esclusa dall’insegnamento perché si è verificata in Inghilterra. Parlando di scienza abbiamo accennato al metodo dimostrativo e all’antica idea che scopo delle teorie scientifiche sia quello di “salvare i fenomeni”. Queste due idee sono nate nell’ambito della civiltà greca perché in quella civiltà è nato il metodo scientifico e il ruolo svolto oggi dalla scienza in tutto il mondo è un motivo sufficiente (ma non certo l’unico) per far rientrare la storia della civiltà greca nel passato di tutta l’umanità. Credo che qualcosa di analogo possa essere detto per l’ominazione avvenuta in Africa, per la rivoluzione urbana avvenuta in Mesopotamia e per altri passaggi essenziali. Il vecchio schema eurocentrico va certo cambiato, tra l’altro dando più spazio alla preistoria e alla protostoria (la cui conoscenza è aumentata enormemente negli ultimi decenni), alle antiche civiltà asiatiche e alla storia dell’Islam e ridimensionando il peso delle vicende belliche europee, ma senza rinunciare all’idea di arrivare a una sintesi proponibile che comprenda le tappe essenziali che hanno dato forma al mondo attuale.

Va anche detto che accanto alla storia generale è certamente accettabile che ogni paese dedichi uno spazio anche alla propria storia particolare, purché non si trasmetta l’idea che abbia un valore superiore alle storie degli altri.

Non posso qui accennare neppure ad altri importanti settori della cultura e dell’insegnamento.[9]

Se un giorno si riuscisse a ricostruire una cultura generale, elaborando sintesi accettabili delle conoscenze, si arresterebbe il degrado della scuola? Non credo. In mancanza di un sistema economico che richieda conoscenze relativamente diffuse di alto livello, probabilmente la maggioranza degli studenti e delle famiglie continuerebbe a non volere una scuola che richieda ancora l’impegno nello studio necessario per acquisire una vera cultura senza che ciò migliori significativamente le prospettive lavorative.

Si possono però immaginare due strade per ridare spazio a una scuola seria.

La prima strada, immediatamente percorribile, si basa sulla constatazione che vi sono ancora molti ragazzi disposti a impegnarsi seriamente nello studio al solo fine di capire meglio il mondo in cui vivono, anche se questa comprensione non porterà loro benefici economici. Credo che meritino una scuola seria. Non penso che un sistema scolastico sia democratico se appiattisce verso il basso il livello di tutte le scuole pubbliche, ma se garantisce a tutti un’istruzione di base decorosa e un livello superiore a tutti coloro che siano disponibili a impegnarsi per raggiungerlo, indipendentemente dalla famiglia di provenienza; è ciò che prescrive la nostra costituzione. Credo perciò che sia proponibile un liceo di alto livello che fornisca una cultura di base unitaria indipendentemente dalle scelte specialistiche successive, come era il vecchio liceo europeo. La prospettiva di una scuola seria, che richieda impegno e fornisca vera cultura non sembra un miraggio improponibile, soprattutto alla luce della resistenza al degrado da parte di molti docenti e all’estendersi della consapevolezza che il declino della scuola europea sia strettamente connesso al declino dell’Europa rispetto a paesi, come quelli asiatici, che hanno conservato una scuola seria e sono in ascesa.

La seconda strada, che permetterebbe un miglioramento più radicale di tutto il sistema, richiederebbe un maggiore sviluppo dei settori dell’economia che utilizzano conoscenze non banali. In Italia, in particolare, la scarsa richiesta di conoscenze scientifiche da parte del mondo produttivo è dovuta anche e soprattutto a una classe politica che, rinunciando a una seria politica industriale, ha permesso e agevolato l’abbandono, gravemente dannoso per il paese, delle produzioni a tecnologia avanzata (con poche eccezioni). Inoltre si può prevedere che le nuove tecnologie, eliminando i lavori meccanici e ripetitivi e aumentando il tempo libero, accrescano il peso economico della produzione culturale.

                                  

 

[1] Questo “arricchimento” appare già nella prima opera latina di retorica, la Rethorica ad Herennium. Ho descritto le conseguenze culturali della conquista romana in Il tracollo culturale. La conquista romana del Mediterraneo (146-145 a.C.), Carocci 2022.

[2] Cicerone, Tusculanae disputationes, I, ii, 5.

[3] Il documento è all’indirizzo https://pnrr.istruzione.it/news/pubblicato-il-piano-scuola-4-0/

[4] Alcuni documenti dell’Unione Europea che autorizzano questo sospetto sono riportati in un libro che considero illuminante: La scuola rovesciata di Lorenzo Varaldo (edizioni ETS 2016).

[5] Era questa la tesi principale, che ritengo ancora valida, del mio vecchio pamphlet Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola? (Feltrinelli 1998).

[6] Ho argomentato questa tesi in Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista (Mondadori 2018).

[7] Ho cercato di descrivere la disgregazione della cultura provocata dall’iper-specialismo in La cultura componibile. Dalla frammentazione alla disgregazione del sapere (Liguori, 2008).

[8] Benedetto Scoppola (fisico matematico attualmente presidente dell’Opera Nazionale Montessori) diversi anni fa introdusse con successo questa attività in alcuna scuole elementari.

[9] Ebbi l’occasione di fare qualche altra considerazione, che considero ancora valida, in particolare sull’insegnamento della filosofia, in Alcune osservazioni sui contenuti dell’insegnamento, “Koiné”, Anno VII, N°1-2 – gennaio/giugno 2000, 1-20, consultabile all’indirizzo:

https://www.academia.edu/25652587/Alcune_osservazioni_sui_contenuti_dellinsegnamento