Il contenuto scientifico di un brano di Lucrezio (IV, 387-396) .

 

Qua vehimur navi, fertur, cum stare videtur; quae manet in statione, ea praeter creditur ire. et fugere ad puppim colles campique videntur, quos agimus praeter navem velisque volamus. Sidera cessare aetheris adfixa cavernis cuncta videntur, et adsiduo sunt omnia motu, quandoquidem longos obitus exorta revisunt, cum permensa suo sunt caelum corpore claro. Solque pari ratione manere et luna videntur in statione, ea quae ferri res indicat ipsa.

 

Il testo trascritto è quello stabilito da C. Bailey. A prima vista si tratta di un brano del tutto chiaro, in cui si illustrano esempi di illusioni ottiche, nell'ambito del più generale tema delle illusioni dei sensi. Alcuni degli esempi sono attinenti all'astronomia, ma sembra che si tratti di esempi privi di interesse scientifico: gli astri, pur muovendosi, appaiono fermi; secondo l'interpretazione più ovvia, generalmente accettata, Lucrezio alluderebbe semplicemente alla lentezza del moto. I versi di Lucrezio appaiono però in una diversa luce se li si confronta con il passo seguente di Seneca ("Naturales quaestiones", VII, xxv, 5-7): Harum quinque stellarum, quae se ingerunt nobis, quae alio atque alio occurrentes loco curiosos nos esse cogunt, qui matutini vespertinique ortus sint, quae stationes, quando in rectum ferantur, quare agantur retro, modo coepimus scire; utrum mergeretur Iupiter an occideret an retrogradus esset (nam hoc illi nomen imposuere cedenti), ante paucos annos didicimus. Inventi sunt qui nobis dicerent: "Erratis, quod ullam stellam aut supprimere cursum iudicatis aut vertere. Non licet stare caelestibus nec averti; prodeunt omnia: ut semel missa sunt, vadunt; idem erit illis cursus qui sui finis. Opus hoc aeternum irrevocabile habet motus: qui si quando constiterint, alia aliis incident, quae nunc tenor et aequalitas servat. Quid est ergo cur aliqua redire videantur? Solis occursus speciem illis tarditatis imponit et natura viarum circolorumque sic positorum ut certo tempore intuentes fallant: sic naves, quamvis plenis velis eant, videntur tamen stare". Nell'ultima frase Seneca accenna, molto concisamente, allo stesso esempio della nave riportato anche da Lucrezio. Questa coincidenza, che è stata spesso notata, non è però l'unica; anche alcune frasi di argomento astronomico si corrispondono chiaramente: il "sidera cessare ... videntur" di Lucrezio corrisponde infatti all' "Erratis, quod ullam stellam ... supprimere cursum iudicatis" di Seneca e l' "adsiduo sunt omnia motu" al "prodeunt omnia" di Seneca; in ambedue i passi si parla cioè di astri che appaiono fermi mentre sono in moto. In Seneca il contesto astronomico è esplicito: le "quinque stellae" considerate sono ovviamente i pianeti ed il loro "supprimere cursum ... aut vertere" si riferisce alle stazioni e retrogradazioni planetarie. Rileggendo Lucrezio si nota che le parole "sidera cessare ... videntur ... quandoquidem longos obitus exorta revisunt", anche se non suggeriscono a prima vista la stessa idea, ne conservano tuttavia chiaramente la traccia: innanzitutto, infatti, esse non si riferiscono ad astri che appaiono fermi, ma ad astri che appaiono "fermarsi" ("cessare"); si introduce poi un nesso tra questa cessazione del moto ed il ritorno degli astri, nesso che sarebbe oscuro se non si riferisse alle stazioni e retrogradazioni planetarie. I pianeti sembrano fermarsi, però, non perché rivedono i luoghi già visitati ma perché stanno per farlo. Se il presente "revisunt" fosse sostituito dal futuro "revisent" l'idea dell'annullarsi della velocità nell'istante dell'inversione del moto sarebbe molto più chiara. Il fatto che la lezione generalmente accettata "revisunt" provenga da una correzione apportata al codice Leidensis 30, nel quale la parola originale era, appunto, "revisent" fornisce quindi una importante conferma al nostro sospetto: i "sidera" di cui parla Lucrezio, proprio come le "stellae" di Seneca, sono i pianeti che, all'atto delle stazioni planetarie, stanno per iniziare il moto retrogrado. Riguardo al Sole ed alla Luna Lucrezio scrive: Solque pari ratione manere et luna videntur in statione, ea quae ferri res indicat ipsa. L'espressione "res ... ipsa" si riferisce evidentemente al fenomeno descritto con le parole "videntur in statione". Lucrezio scrive quindi che il Sole e la Luna sembrano immobili, mentre la loro stessa apparente immobilità (o, meglio, il loro apparire sospesi in cielo, senza cadere) dimostra il loro moto. E' proprio il moto relativo, infatti, a permettere alla Luna ed al Sole di non scontrarsi con la Terra, equilibrando (nel linguaggio moderno) la gravità con la forza centrifuga. Se il significato dei vv. 395-396 è apparentemente finora sfuggito, nonostante le interpretazioni usuali non permettano di render conto adeguatamente dell'espressione "res ipsa", ciò è accaduto probabilmente per il timore di attribuire a Lucrezio, anacronisticamente, concetti considerati "moderni". Tale timore appare però ingiustificato se si considera che lo stesso concetto non solo è sviluppato con grande chiarezza, in riferimento alla Luna, in un passo di Plutarco 1 1 Plutarco "De facie quae in orbe lunae apparet", 6 ( "Moralia", 923 C-D). , ma è riferito anche da Seneca, proprio nel brano che stiamo esaminando. Seneca scrive infatti che gli astri sono conservati dal loro moto regolare, ma se si fermassero inizierebbero a cadere gli uni sugli altri ("qui si quando constiterint, alia aliis incident, quae nunc tenor et aequalitas servat"). Questa affermazione di Seneca appare una decisiva conferma sia dell'interpretazione precedente del passo di Lucrezio che del legame tra i due testi. Osserviamo che mentre il ripetersi dello stesso esempio della nave potrebbe di per sé essere spiegato, come in genere è stato fatto, supponendo che quella di Seneca sia una citazione di Lucrezio, il parallelismo che abbiamo verificato, molto più esteso, sembra richiedere una spiegazione diversa. Lucrezio non può essere infatti la fonte delle affermazioni sul moto planetario delle "Naturales Quaestiones", come risulta chiaramente sia dal maggior contenuto astronomico presente in Seneca che dalla terminologia usata. Quella di Seneca, che tra l'altro introduce il termine "retrogradus" esplicitamente come termine tecnico, è una citazione usata per riferire una teoria astronomica: è quindi evidente l'uso di una fonte scientifica o dossografica. Il legame tra i due testi sembra quindi suggerire l'uso di una fonte (con ogni probabilità indiretta) comune.